Doccia fredda a Berlino per Luigi Falorni. Il regista italiano candidato all'Oscar nel 2005 per La storia del cammello che piange viene gelato dalle polemiche che accompagnano il suo film in concorso. Nell'occhio del ciclone è l'impiego dei bambini soldato, da parte del Fronte di Liberazione Eritreo, su cui ha incentrato il suo nuovo Feuerherz, in gara per l'Orso d'Oro. Pacifica ma ferma e decisa, la contestazione arriva da un'associazione di testimoni oculari, a suo tempo compagni di scuola dell'autrice al cui romanzo è ispirato il dramma. Volantinaggio all'ingresso della proiezioni e picchetti a precedere l'incontro stampa, per ribadire che in sostanza è tutto un falso: nella lotta per l'indipendenza dall'Etiopia non sono mai stati usati bambini soldato. "Ho iniziato a occuparmi di questo tema all'inizio del 2006 - ribatte Falorni -. Il frutto di queste ricerche sarà presto consultabile su un sito web. Si tratta di una mole consistente di immagini e materiali, che non lasciano dubbi: l'impiego di giovanissimi da parte dell'Eritrea è invece avvenuto".
Non la pensa così Abrahim Mehreteab, portavoce della sparuta ma determinatissima associazione, che arriva a chiedere il ritiro di Feuerherz dal concorso della Berlinale: "E' tutto un falso a partire dal libro di Senait Mehari: era con noi a scuola e non si è mai unita alla guerriglia, come vorrebbero far credere il romanzo e il film. Quello che ne emerge è un ritratto infamante, che non risponde assolutamente a verità. Io stesso ho un fratello, che quando a 13 anni ha chiesto di arruolarsi è stato rispedito a casa dal Fronte di Liberazione, perché troppo giovane". Incalzato dai giornalisti, Falorni risponde smorzando il fuoco delle polemiche: "Non era mia intenzione gettare fango sull'Eritrea, né tantomeno dare l'impressione che abbia costretto i bambini a combattere. Penso anzi che si tratti di un paese molto fiero e orgoglioso, che in 30 anni è riuscito a liberarsi di un occupante assai più grande e più forte". Aspirazione del suo racconto, puntualizza il regista ormai di base a Monaco di Baviera, era piuttosto un respiro universale: "Il libro della Mehari è stato soltanto un'ispirazione. L'adattamento ha comportato l'inserimento di elementi di fantasia, che mi sono però concesso anche perché non volevo raccontare una situazione in particolare. Quello che mi interessava era denunciare la condizione dei bambini-soldato, in qualsiasi angolo del pianeta".
Quella che vediamo sullo schermo è però una storia fortemente eritrea. Vicenda della piccola Avet, che all'inizio degli anni 80 viene prima prelevata dall'istituto religioso dove ha trascorso l'infanzia e poi consegnata ai guerriglieri, dalla famiglia che l'ha adottata. E' qui, sotto la guida della carismatica Maaza, che viene avviata ai fondamentali della guerriglia. Occhioni sgranati e un metro e poco più, la piccola vorrebbe già imbracciare un fucile, ma deve all'inizio accontentarsi di un modellino in legno. I suoi coetanei sparano però sul serio e presto avvengono i primi incidenti: "La lavorazione è stata complicatissima - racconta Falorni -. L'Eritrea ci ha negato il permesso per le riprese e siamo stati quindi costretti a girare in Kenya. Da qui abbiamo anche reclutato gran parte dei ragazzi, che sono tutti attori non professionisti. Non sono poi mancate le tensioni: a pochi giorni dal primo ciak, alcuni di loro hanno improvvisamente lasciato il set e rischiato di mandare tutto in fumo". Tra mille difficoltà, Feuerherz ha però visto la luce, grazie anche a una potentissima cordata internazionale, che ha affiancato la produzione austro tedesca. Ultimo ostacolo da superare, la battaglia che proprio oggi è stata annunciata, in forma anche di una mostra fotografica,che fino al 28 marzo dovrebbe illustrare a Berlino il falso storico dell'intera vicenda.
Fonte:Libero.it
Cinema